La Repubblica – Firenze

Blaise e Mireille sono una coppia squallida. Lui lavora in un cantiere, ma «perfino il suo capo non lo ha mai considerato come un bravo operaio », e lei fa la cassiera da Champion quando non è impegnata con il suo giovane amante, Bernard. Vivono in una periferia che «fa veramente schifo», e poco importa che si trovi nel Sud del Belgio perché potrebbe essere anche in Italia, in Francia, in Germania.

E anche gli stessi Mireille e Blaise potrebbero vivere ovunque, perché il loro dramma è, se non universale, decisamente comune: condividono un matrimonio d’apparenza e necessità, hanno due figli che sembrano ombre, non si rivolgono più nessun gesto d’affetto né di amicizia. Entrambi sono degli infelici e, per quanto Mireille sia rassegnata, Blaise continua a sperare. Insegue un contratto a tempo indeterminato e «vorrebbe vivere nella vita di un altro. Con sua moglie e i suoi figli. Essere felice». Lui «sa che esiste la felicità, perché la sospetta negli altri ». I due, pur condividendo la stessa casa e le stesse abitudini, però non si incontrano mai se non in quei dettagli quotidiani, come un vasetto di crema nel bagno o un paio di scarpe lasciato fuori posto, che Isabelle Garna è brava a raccontare. Non si incrociano mai perché le loro storie, come se fossero destinate a restare in eterno parallele, si alternano.

Alle parole di Mireille che confessa in prima persona il suo struggimento d’amore per il giovane Bernard e la sua patetica routine da impiegata, succedono sempre quelle certamente più avvincenti di Blaise che, inseguendo il riscatto sociale, rimane punito: il giorno del contratto che tanto desiderava trova la sua futura datrice di lavoro, la Signora Petroni, «sdraiata per terra in una posizione strana, le gambe aperte e la testa contro il bordo del camino”. Probabilmente è morta, e lui ci mette un attimo a capire che, pur essendo innocente, diventerà colpevole. L’unica soluzione è allora scappare, ma mentre sta fuggendo incrocia sulla porta di casa un bambino. È piccolo, non ha nemmeno sei anni, ma è pur sempre un testimone. Il bimbo, spaventato, corre subito a nascondersi e Blaise d’istinto lo insegue, sa che «sta per fare una cosa insensata ». E quella cosa insensata arriva, violenta, a rovinare la sua vita e, forse, quella dei suoi famigliari. Arriva per trascinarlo nella sua personale, schizofrenica e a volte poco credibile deriva.

Nonostante la discontinua traduzione di Marie-Emmeline Vanel, che non disdegna né invenzioni («teleesiste con dei personaggi») né peripezie linguistiche («il mio eroismo elettrodomestico»), con Deriva la belga di origini friulane Isabelle Garna firma un romanzo sulla solitudine, sulla paura di prendersi le proprie responsabilità e, forse, di crescere. Perché Blaise e Mireille sono due adulti, ma soprattutto due bambini incapaci di reagire alla vita se non attraverso emozioni e comportamenti primordiali, scappando l’uno dalle circostanze, l’altra dall’amore scandaloso per un giovane uomo. Entrambi sono ossessionati dalla paura e dall’eccitamento, quasi la vita fosse racchiusa esclusivamente in queste due drammatiche esasperazioni, e tutto il resto fosse «una grande camera da letto scura che profuma di pino».

Flavia Piccinni

la Republica Firenze

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